I BONACOSSA

L’inizio

E

ra il 1860 quando Vincenzo Bonacossa e suo figlio Luigi aprirono in Via Cairoli a Dorno in provincia di Pavia, la loro prima Filanda per la lavorazione della seta

Vincenzo Bonacossa nei ritratti dell’epoca sia di Biagio Canevari sia del più famoso Eleuterio Pagliano di cui parlo successivamente, danno l’immagine di un uomo tenace, saldo nei suoi principi ma semplice e dallo sguardo onesto che ha saputo sfidare le difficoltà del suo tempo anche nel passare dall’agricoltura ad un’impresa impensabile come aprire una filanda su schemi industriali già avanzati ed istruire del personale che fino a poco prima era impiegato solo nell’agricoltura. Rimase sempre legato alla sua terra d’origine, come molti dei suoi discendenti.

La Filanda di Dorno era dotata di caldaia a vapore che sostituiva le caldaie a legna o carbone per mantenere calda l’acqua delle bacinelle per la trattura della seta (50°/60°) e per azionare le macchine per la lavorazione. Contava di 120 bacinelle per la trattura, lavoravano 266 operaie per un ciclo produttivo interamente manuale. In un secondo opificio, sempre a Dorno, lavoravano 80 donne su 800 fusi, per la filatura per un periodo all’anno di 150 giorni circa, seguendo la fase stagionale di produzioni dei bozzoli. Un uomo

La prima filanda Bonacossa a Dorno

sovraintendeva a queste operazioni, ma il lavoro era prettamente femminile e manuale. Si lavorava dall’alba al tramonto, (da un “Ave Maria” all’altra). Le ragazze iniziavano il lavoro in filanda all’età di dodici anni. Ogni filatrice produceva in media 600 grammi di seta al giorno.

Si lavorava dieci ore al giorno d’inverno e undici d’estate. La paga giornaliera nel 1910 era di una Lira e mezza; le più esperte arrivavano a due Lire e sette soldi. L’attività di trattura era sospesa solo per la “ monda del riso ”, che in una zona prevalentemente agricola, costituiva un altro introito importante per il bilancio domestico. Le donne in Primavera ed estate erano occupate nelle campagne alla raccolta delle foglie di gelso, unico nutrimento per i bachi

Filatrici al lavoro

da seta che doveva essere freschissimo. Andavano a “far foglia” come dicevano allora, ovvero a raccogliere foglie di gelso nelle campagne. Nell’800 Dorno come tutti i luoghi agricoli della Lomellina, non diversi dalle città di tutto il Nord d’Italia e oltre, registravano condizioni di vita precarie. Le abitazioni erano estremamente disagevoli, le case anguste e fredde, gli spazi comuni limitati e condivisi da più persone. Uomini e animali condividevano spesso gli stessi spazi, privi di nozioni igieniche. Molti detti in dialetto lomellino sono rimasti da allora nel linguaggio comune fino ai nostri tempi: “Tra la testa tam me un bigat” muove la testa in modo oscillatorio alludendo al movimento tipico dei bachi adulti per disporre la seta (bava) in bozzolo. Oppure “Ghe andai mal i bigat!!!” ovvero è sfumato un importante affare. Dorno, come tutti paesi della Lomellina, prevalentemente agricoli

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