ATOM _- Autobiografia di un'impresa metanazionale
Di certo persone riservate, schive, lontane da giornali e riflettori, chiusi nella loro azienda, chini sui loro progetti. Uomini di poche parole e, come spesso ne consegue, di grandi fatti. Imprenditori per i quali il tempo aveva un senso, era davvero denaro, e fatica, da non disperdere, da non sprecare. E allora perfino le riunioni erano fatte di trenta minuti; mezz’ora poteva esser sufficiente per riflettere, anche in silenzio, fumando una sigaretta, scandendo il ritmo dei pen sieri con il dondolio frenetico d’un piede, predisponendosi all’ascolto di idee e controproposte, sintetizzando il tutto in un’unica decisione, sempre e solo presa all’unanimità. E mai più ridiscussa. Perché, in fin dei conti, loro tre agivano con profonda sintonia d’intenti così che una e unica fosse la loro creatura: la Atom. Mai imposizioni dunque, ma un’umiltà che, come un nodo, ha stretto saldamente un legame fatto di grande maturità e intelligenza. Ecco perché, hanno rappresentato, non solo agli occhi dei collaboratori, l’eccellenza come classe dirigente e un esempio come uomini. Tutti al proprio posto, ognuno col suo compito. Uno, “uomo di prodotto”: abituato alla teoria e alla valutazione eppure creativo, operativo e ricercatore della perfezione perché “Le nostre macchi ne devono continuare a lavorare, sempre, senza che succeda niente”. Perché l’approssimazione è nemica del successo. L’altro, “uomo di fabbrica”: razio nale, pragmatico, esigente eppure capace di quel contatto umano e di quella vicinanza nei confronti dei dipendenti che affiata e stimola. Perché in un semplice, e troppo spesso sottovalutato, “Buongiorno, come sta oggi? Come va la vita?” risiede, intelligente, quella forma di collaborazione che non separa, ma unisce e incoraggia a dare sempre il meglio. “Uomo di mercato” il terzo: deciso, carismatico, portato alla gestione, graffiante come il ruolo ricoperto impone, perché nel “Non capisco come possano succedere certe cose” risiede la ferma certezza che quelle cose non sarebbero mai più successe. Perché il compromesso non paga. Gli accomodamenti, infatti, rappresentavano quella via di mezzo, quel trat to di strada impercorribile, quella deviazione che li avrebbe allontanati dalla meta. Anche se voleva dire perdita di fatturato, un compromesso non poteva essere contemplato. Doveroso e imprescindibile era il senso di responsabilità che non avrebbe mai permesso di far mancare qualcosa all’azienda, ovvero ai dipendenti che la costituivano. Rigore e serietà erano altre parole d’ordine: tutto in azienda doveva essere corretto e lecito, dalla forza lavoro impiegata, al fatturato, alla legalità nei con fronti del fisco e nei controlli per la sicurezza sul posto di lavoro. Indiscussi esempi della mentalità di un buon imprenditore. Anzi, tre. Tre uomini che sapevano come capitalizzare i redditi, “portando a casa” il necessario per una vita agiata ma mai lussuosa. Nessuna ostentazione, quindi, perché quel che fruttava l’azienda, restava in azienda, per investire sul futuro.
i tre fondatori. un ritratto
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