ATOM _- Autobiografia di un'impresa metanazionale
Nelle riflessioni sul progetto Cina tra il management Atom erano emersi in sintesi alcuni chiari obiettivi strategici. In primo luogo figurava certamente il recupero di un vantaggio di costo per la riesportazione di componenti e mac chine finite e per la vendita sul mercato locale in esenzione daziaria. Questo ovviamente comportava un’impeccabile esecuzione di una start-up manifattu riera in territorio cinese. In secondo luogo, la presenza diretta avrebbe costituito un permanente avamposto commerciale per la penetrazione nel mercato cinese e asiatico, ormai particolarmente attento a discriminare i produttori europei tra chi puntava a stabili presenze commerciali e chi preferiva le scorciatoie dell’export di tipo opportunistico. In terzo luogo, sulla base dell’esperienza maturata in Brasile, Atom mirava a una maggiore vicinanza rispetto a tutta la filiera produttiva dei grandi gruppi calzaturieri mondiali, in particolare ai grandi brand della scarpa per lo sport e il tempo libero, che in Cina e in Estre mo Oriente avevano i propri contractor di fiducia, e che avrebbero richiesto, quanto prima, una struttura di servizio diretta, necessaria soprattutto in vista delle attese migrazioni verso i sistemi di taglio automatici. Ma nel corso dei diversi contatti preliminari avuti con il mercato cinese, erano anche emersi alcuni elementi problematici e chiari fattori di rischio, che potevano essere suddivisi in fattori esterni e fattori interni. I fattori esterni se gnalavano che, a fronte di un’alta reputazione della tecnologia italiana in Cina, il gap tecnologico sulla specifica area d’interesse per Atom, ovvero il taglio, non era percepito come particolarmente critico dai clienti cinesi. Anche la brand awareness di Atom, pur nel suo ruolo di leader tecnologico del mondo occiden tale, era tutto sommato confinata alle grandi imprese e ai contractor di gruppi internazionali. Ma le preoccupazioni maggiori venivano dal fronte interno. Quelle più evidenti emergevano dalla legittima percezione sui rischi finanziari e organizzativi derivati dalla mancanza di esperienza nella gestione di una pre senza altamente impegnativa in un paese così diverso e distante come la Cina. Quelle più pericolose provenivano invece dalla possibile resistenza culturale di chi in azienda era profondamente intriso di cultura manifatturiera in una prospettiva strettamente locale. Pur se nessuno aveva mai osato pronunciare la parola “delocalizzazione” – peraltro comune da anni nel lessico industriale di gran parte dei clienti occidentali della stessa Atom – era impossibile, vista l’alta posta in gioco, non sollevare qualche preoccupazione in chi interpretava l’avventura cinese che si stava prospettando, a suo modo di vedere e certo in maniera semplicistica, come un modo per “rubare posti di lavoro agli italiani”. C’era poi un’obiezione quasi diametralmente opposta, negli anni divenuta reale con l’evolversi del contesto di mercato: qualcuno iniziava a domandarsi se per Atom valesse ancora la pena investire denaro e risorse per competere con la Cina, sul piano dei costi, nel mercato dei prodotti tradizionali a basso valore aggiunto, come appunto erano le fustellatrici a braccio e a carrello. Queste
atom con gli occhi a mandorla
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