ATOM _- Autobiografia di un'impresa metanazionale

per continuare a recitare un ruolo di leadership internazionale, non potessero non misurarsi con la Cina. Fu subito evidente che tale confronto, fatto salvo l’adeguamento della “regola aurea” alla rivoluzione intervenuta nella produzione mondiale, veniva a imporre nuove strategie di posizionamento alla tradizionale struttura delle imprese meccano-calzaturiere italiane, struttura che fino a quel momento si era dimostrata funzionale alla vendita delle macchine in tutte quelle aree del mondo in cui si fosse sviluppata la filiera della calzatura. In Cina “la scienza normale”, ovvero il sapere diffuso che aveva guidato le nostre aziende alla conquista della leadership planetaria, aveva fatto breccia e ottenuto buoni risultati solo in un primo tempo, quando, cioè, lo sviluppo calzaturiero si an dava realizzando unicamente nel sud del paese attraverso gli investimenti dei cinesi di Taiwan e di Hong Kong, che delocalizzavano in quelle regioni la loro produzione. Non appena, però, lo sviluppo si è concretizzato in altre aree a investimento cinese, il prodotto italiano si è rivelato inadatto per quel mercato. Non solo: in quegli anni era ormai cresciuta un’industria meccano-calzaturiera cinese pronta a erodere all’export italiano quote di mercato nel sud della Cina e in altri paesi del Far East , precedentemente coperti dai nostri prodotti. Per contro, la struttura peculiare della produzione calzaturiera cinese – che aveva, e tuttora ha, nel prezzo basso la principale arma di penetrazione sui mercati internazionali e caratterizzava il prodotto per il mercato locale con un livello di prezzo ancora più basso – rendeva nella sostanza, al di là di situazioni episo diche, poco vendibile se non addirittura fuor di misura la tecnologia realizzata in Italia. Per di più, dopo i primi anni Duemila l’industria meccano-calzaturiera cinese aveva preso ad affacciarsi anche su altri mercati tradizionale “riserva” per le aziende italiane (Sud America e India), portando un formidabile attacco in termini di prezzo, senza tuttavia poter competere in termini di qualità e tecnologia. In effetti, l’avvio pionieristico di una industria cinese di macchine per la fabbricazione delle calzature scontava nei prototipi carenze e malfunzio namento, difetti che, tuttavia, nel passaggio alla produzione su grandi numeri venivano ampiamente ridotti. “Piccole e brutte” che fossero, quelle macchine erano ormai una realtà (“ci sono”), come con forza Patrizia Galli avvertiva gli imprenditori di settore nel corso dell’assemblea generale di Assomac nel 2003 2 . Per competere con l’affermazione dell’industria locale, che pareva ormai sempre più sicura, agli imprenditori italiani non restava che intraprendere la scelta di andare in Cina, cercando di cogliere tutti i possibili vantaggi di tale localizzazione: prezzi più competitivi, consegne più veloci, tecnici in loco per l’installazione e la manutenzione degli impianti, ma, soprattutto, la possibilità di cogliere velocemente i cambiamenti del mercato. Per contro, era necessario superare difficoltà che non si compendiavano solamente nella latitudine culturale che passa tra Cina e mondo occidentale.

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