Pittori Lomellini

I pittori Vigevanesi e della Lomellina a cavaliere di due secoli

Una considerazione preliminare di notevole importanza, dalla quale, perciò, non si deve in alcun modo prescindere, è che di Vigevano e della Lomellina, sotto il profilo artistico, ci si è sempre interessati assai poco, al punto che ancor oggi, per molti, è un'autentica sorpresa 1° scoprire, nel centro storico di Vigevano stessa, quel raro splendore e quell'autentica rivelazione che è la piazza Ducale. Se dunque persino eccezionali documenti che risalgono addirittura a quel periodo bramantesco-leonardesco che in Lombardia segnò i più alti raggiungimenti della civiltà umanistica, sono così poco noti, si può facilmente dedurne a quale livello di non conoscenza siano ridotti i pittori di detta zona fioriti tra l'Ottocento e il Novecento, in un periodo assai delicato per la storia della nostra pittura. In effetti si può dire che sin quasi a oggi le uniche testimonianze della pittura ottocentesca lomellina note anche al di là degli stretti confini degli specialisti, fossero i ritratti mondani o i nudi morbosamente seducenti (perlomeno nelle intenzioni) di Giuseppe Amisani: un fatto di moda, quindi, surrogato dalle inquietudini erotizzanti dell'epoca liberty, il cui sostegno estetico si riduceva al dannunzianesimo oramai largamente diffusosi pure in provincia. Ma è chiaro che il fenomeno non nasce di qui, bensì da quella più vasta provincia che, in molti casi, è pressoché tutta l'Italia di quel tempo: una crisi di cultura che investe in maniera massiccia le arti figurative e a cui non possono minimamente sopperire le affermazioni nazionalistiche degli scrittori di cose d'arte degli Anni Venti, Trenta e Quaranta, primo fra tutti di un Ugo Ojetti che finge di ignorare la portata dell'autentica rivoluzione romantica e si riduce a contrapporre all'universalità della rivolta impressionista il timido riformismo dei pur deliziosi macchiaioli o alla concreta ambizione di una «grande peinture » di Renoir il morbido

pathos tra naturalistico e familiare di Armando Spadini In realtà - è un concetto che sta alla base delle mie convinzioni in merito -l'Italia ha mantenuto un cosiddetto primato nelle arti del disegno sin quando l'arte pur se praticata nelle botteghe artigianali- era, per effetto dell'estrazione sociale dei suoi committenti (i principi e la chiesa, in primo luogo), un fenomeno aristocratico. Quando l’illuminismo portò un primo attacco a tale situazione e la rivoluzione francese compì l'opera dischiudendo la via al futuro trionfo della borghesia, arte e cultura iniziarono un processo di democratizzazione praticamente d'impossibile realizzazione dove pressoché inalterati rimanevano i retaggi della controriforma. Perciò l'arte italiana riconobbe ;a sua estrema stagione di gloria nel neoclassicismo che presto si convertì in accademia; quest'ultima finì poi per irretire un fermento quale quello romantico e, da quell' aperta ribellione a ogni forma involutiva e statica ch'esso era, lo convertì a uno «pseudo romanticismo accademico» che si limitava a mutare i repertorio senza operare alcuna revisione nel più profondo tessuto della cultura, (E quanto parallelamente avviene nel risorgimento politico che invece di affrontare problemi connessi con le esigenze di rinnovamento delle strutture sociali ed economiche adatta i mutamenti dinastici alle convenienze d’un passaggio del potere economico dalla nobiltà feudale all'alta borghesia con ambizioni di blasone, senza tuttavia spostare gli squilibri derivati dalle perduranti sperequazioni) . Gli autentici rappresentanti del romanticismo pittorico italiano (Piccio, Fontanesi, Toma, per fare qualche nome e non Hayez e affini che lo sono soltanto in relazione alle scelta di un repertorio medioevaleggiante anziché greco romano) sono quelli che, accogliendo le istanze di una libertà espressiva capace - all'occorrenza- di superare i limiti accademici, dischiudono altresì le porte all’interpretazione

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